Saluto di fratel Enzo

Carissimo padre e Vescovo Alberto Silvani, carissimi Vescovi Piero Marini, Brian Farrell, Antonio Buoncristiani, Mansueto Bianchi, Mario Meini, Erminio De Scalzi, cari fratelli e sorelle e cari amici: all’inizio di questa nostra liturgia desidero manifestare il mio ringraziamento al Signore per i doni che continua a fare alla nostra povera comunità. Siamo e vogliamo essere una piccola realtà nel grembo della Chiesa santa e una, una comunità monastica che tenta, tenta, di vivere il vangelo, nella vita fraterna, nel lavoro, nella preghiera e nell’accoglienza di tutti quelli che bussano alla nostra porta.

Noi oggi semplicemente ci sentiamo di ringraziare il Signore che ci ha chiamati a questa vita monastica nel 1965 alla fine del Concilio e che nell’ottobre del 1968 abbiamo iniziato in quattro la vita comune: e uno di quei quattro è qui a Cellole. E nel 1973 il cardinale Michele Pellegrino, Arcivescovo di Torino, ha approvato la nostra Regola e ci ha concesso di professare definitivamente la vita monastica. Poi il Vescovo della Chiesa locale di Biella, mons. Massimo Giustetti ha approvato i nostri statuti e ci ha dato il riconoscimento giuridico, e così siamo una comunità di monaci, di confessioni cristiane diverse, a servizio dell’unità di tutte le Chiese. Noi lo confessiamo: nonostante me, nonostante noi comunità, il Signore ci ha fatto crescere, e così a Gerusalemme, a Ostuni, ad Assisi, abbiamo iniziato una vita di fraternità, abbiamo dato vita a dei piccoli monasteri. Ed eccoci ora a Cellole, nella Chiesa locale di Volterra il cui Vescovo Alberto (con il parroco don Armando) ci ha accolti con affetto e attenzione. Come ringraziarlo per la fiducia che ci ha mostrato? Noi chiediamo al Signore che lo sostenga, lo consoli nel suo ministero episcopale e noi gli assicuriamo per lui e per la sua Chiesa la preghiera e la comunione sincera e leale.

E a voi Vescovi della Toscana, che siete qui con la vostra amicizia per noi così preziosa, voglio dire la nostra disponibilità ai servizi che voi ci chiederete se noi ne saremo capaci e abilitati. Ma sono sicuro che noi vivremo una profonda comunione. Noi vogliamo essere davvero nel cuore spirituale delle vostre Chiese e a servizio del Signore nelle vostre Chiese.

Ma voglio infine anche dire un grazie alla gente di Cellole e di san Gimignano che è qui in questa sua amata Chiesa. Noi vogliamo vivere con voi in fraternità e in amicizia, ci vedrete lavorare perché noi lavoriamo per poter vivere, vogliamo qui accogliere tutti quelli che bussano alla nostra porta, soprattutto quelli che si trovano nel bisogno materiale e spirituale. Già noi amiamo questa meravigliosa terra, le sue opere d’arte, i suoi vigneti, i suoi oliveti, le vostre case, e ci impegniamo a contribuire con voi alla salvaguardia e alla custodia del patrimonio rappresentato dal paesaggio, dall’architettura, dall’arte, dal cibo che narrano questa terra. Da monaci cristiani crediamo che è nostro compito avere questa cura degli altri fino ad amare gli altri come noi stessi, ma anche ad aver cura e ad amare la terra come noi stessi, e dunque sentirci responsabili per lasciare questa terra più buona e più bella quando dovremo lasciarla.

Ed infine mi si permetta di far memoria di quella che per noi è stata una sorpresa trovata qui alla Pieve, una vicenda esemplare. Nel X secolo vi è qui una chiesa dedicata a san Giovanni il Battista. In sua memoria nella facciata della casa abbiamo posto un antico dipinto romanico che lo ritrae. È la memoria, voi lo sapete, del principe dei monaci, e noi Giovanni Battista lo amiamo particolarmente e chiediamo ogni giorno la sua intercessione. Questa chiesa dedicata a Giovanni Battista dal 1034 è stata dedicata a Maria, la madre del signore, nel mistero della sua assunzione al cielo. Poi si è costruita questa pieve, nella quale noi siamo in assemblea, la si è costruita nel XIII secolo, e ancora oggi è leggibile su una delle colonne centrali la scritta: fatta nell’VIII giorno delle idi di giugno del 1233, e nella facciata sta scritto: 1238 compimento della chiesa.

Ecco sono otto secoli che questa chiesa raccoglie la preghiera, la fede delle vostre terre, della vostra gente e anche dei pellegrini sulla via  francigena. C’è anche una campana che avete sentito suonare e che porta la scritta 1254 e di quel tempo è il battistero ottagonale all’entrata della chiesa in cui abbiamo voluto che zampillasse costantemente l’acqua a ricordarci che il battesimo ci fa cristiani, che il battesimo ci rende discepoli cristiani per sempre e in una Chiesa che è più vasta delle chiese attuali confessionali.

Infine questo luogo diventò una mansio leprosorum, una casa di lebbrosi. E la vicenda ci ha molto toccati, una vera grazia. Qui si è radunata una comunità di fratelli e di sorelle, come è la nostra composizione a Bose, presieduta da un priore che prestava servizio ai più poveri ed emarginati da tutti, i lebbrosi. In una Regola del 1250 Ildebrandino, che era in quel momento il priore della Pieve, raccomandava ai fratelli e alle sorelle, dando loro una regola: vivano in perfetta fraternità, carità, pazienza, preghino alle ore determinate e vivano in modo da essere una vera fraternità del Signore. Ed è proprio in questa casa che giunge Bartolo, Bartolomeo Buonpedoni, che morirà qui nel 1300. Bartolo era entrato in un monastero benedettino a san Vito di Pisa al seguito di un anziano monaco santo di cui fu discepolo, in quel monastero di Pisa esercitò la cura dei malati, ma poi a cinquant’anni si ammalò di lebbra e come tutti i lebbrosi dovette lasciare il monastero. Ma venne qui in questa comunità, a Cellole, dove si curavano i lebbrosi per curare lui lebbroso i lebbrosi, fratello tra i fratelli e  con sé ebbe un discepolo, anche lui santo, san Vivaldo. Trascorse gli ultimi anni della sua vita come capo di questa piccola comunità e rettore della Pieve. Conosciutissimo, venne chiamato per la sua pazienza il Giobbe della Toscana, venne proclamato santo e il suo culto è stato confermato ancora nel secolo scorso dal san Pio X. Un giorno accolse un lebbroso, un pellegrino lebbroso, e, come a tutti, gli lavò i piedi in quella vasca che si trova nel chiostro. Ma mentre lavava i piedi, lui lebbroso sentì che colui a cui lavava i piedi non era soltanto un lebbroso, e in quel momento il lebbroso sparì alla sua vista, e lui capì che aveva lavato i piedi al Signore, quasi a realizzare le promesse del Giudizio: ero lebbroso e mi avete curato. Una icona dipinta dalla nostra comunità ha voluto ricordarlo qui. E c’è la scena in cui egli sta lavando i piedi a Cristo, Cristo lebbroso e lui lebbroso, e non abbiamo dimenticato che nella Vulgata di san Gerolamo, nel canto del servo di Isaia 53 (era d’altronde la versione ufficiale della Chiesa latina), Gerolamo ha avuto il coraggio di tradurre: vidimus eum quasi leprosum, abbiamo visto il servo del Signore come un lebbroso.

Ecco credo che questa per noi è una grande lezione, è una grande sorpresa di Dio. Dobbiamo curarci gli uni gli altri perché ognuno di noi è lebbroso anche se non lo sa. Portiamo ciascuno di noi delle opacità, dei mali, dei peccati che ci rendono lebbrosi e noi dobbiamo avere cura gli uni degli altri. Questa è la lezione per noi monaci che vivremo qui e chiediamo a tutti voi di pregare, di pregare per noi perché siamo fedeli al vangelo, pregate perché siamo in comunione con la Chiesa, le Chiese sante della Toscana, pregate perché siamo tra di noi davvero fratelli e fratelli che vivono la fraternità, gente che vuole fare un cammino di umanizzazione e conoscere l’amore del Signore.

Mi permetto di dirvi che oggi, insieme ai Vescovi della Toscana che vi ho nominato, siamo particolarmente lieti che ci sia tra di noi mons. Piero Marini, che è il presidente del pontificio Comitato dei congressi eucaristici internazionali, ma tutti voi lo conoscete come il Maestro delle cerimonie di Giovanni Paolo II e di una parte del pontificato di Benedetto XVI; e c’è anche tra di noi il Vescovo Brian Farrell        che è il segretario del pontificio Consiglio per la promozione dell’Unità dei Cristiani, un Consiglio che lavora per l’unità della Chiesa, con il quale noi cerchiamo di collaborare e con il quale c’è tanta amicizia.

Ecco, ringrazio ancora i Vescovi di essere tra di noi, e alla fine della nostra liturgia, prima della benedizione del monastero che sarà fatta fuori, farò anche però un ringraziamento doveroso alle autorità civili e a quanti ci hanno aiutato in tutto il lavoro per restaurare, riavviare, ringiovanire questo luogo.

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